Correre la maratona aveva per me un significato tutto suo, non avevo bisogno di una gara ufficiale, non avevo bisogno di una gara, avevo bisogno di un rito.
Avevo bisogno di liberarmi, di uscire da una vita che non mi apparteneva più, ma continuava a condizionarmi, avevo bisogno di concedermi una vita nuova, tutta da ricostruire.
Sapevo di non essere fisicamente pronta, sapevo che ci avrei messo una vita, un tempo eterno per percorrere quei 42,195km, ma avevo bisogno di attraversare quella soglia, di andare oltre.
Per come sono fatta, devo sempre passare per la via più difficile, non mi bastava il percorso fatto durante tutto l’anno, avevo bisogno di un rito potente, probabilmente anche un po’ estremo.
Sono arrivata al 14 dicembre con tutti i dolori che posso arrivare i giorni prima di un evento importante, un polpaccio che sembrava non volermi dar tregua e un livello di ansia notevole.
Svegliarsi presto per avere il tempo di prepararsi con calma, quella sensazione di quiete potente che mi ha pervasa da subito quella mattina.
Vestirsi ed aspettare di essere recuperata per una colazione che è stata leggerezza, risate, possibilità di smollare tutta la paura, l’ansia e riempirsi solo di bellezza, perché quello doveva essere, bellezza.
Il sole sul viso e quell’aria fredda, le montagne limpide, sono stati salvezza.
Al primo giro un dolore fortissimo ai tibiali, il pensiero che così non sarei arrivata al secondo di giro, quel dolore forte da far venire le lacrime agli occhi, ma non mollare, non lasciar spazio, cercare soluzioni, levare le calze che dovevano proteggere il polpaccio e sperare che quel bruciore se ne andasse.
Quella voce che ha accompagnato e che mi raccontava di tutte le cime delle montagne, mi ha aiutata a lasciar da parte la tensione e il dolore, che un poco alla volta se ne è andato.
Un giro dopo l’altro contarli, ma contarli dicendosi che era un giro in più fatto, un altro pezzetto di strada percorso.
E poi è arrivato quel pensiero felice, quello che mi ha permesso di portarla a casa, ho pensato che avrei potuto chiuderla lì, che non ne avevo più bisogno, che non dovevo dimostrare nulla a nessuno, che per me poteva anche chiudersi in quel momento. Mi sono ritrovata a sorridere e sono andata avanti.
E’ strano, il tempo che passava ed io che ero chiusa dentro una strana bolla fatta di facce amiche, di chi ha fatto un giro con me, di chi si è fermato a salutare, di chi mi ha aspettata ad ogni ristoro, di chi mi ha guardata profondamente per capire se andava tutto bene, e di strada, di km da percorrere e di quel giro che potrei descrivere nei dettagli.
Il mio corpo, questo corpo che ho maltrattato per tanto tempo, questo corpo che ancora una volta è riuscito a starmi dietro, a scendere a patti con la testa, perché quello è l’unico modo possibile per portare a casa una gara, una qualunque, far scendere a patti il tuo corpo con la tua testa.
Otto ore sono tante, un’eternità, ma da un certo punto in poi, io non ho più avuto idea di che momento della giornata fosse, ho colto i cambiamenti di luce, della temperatura, il sole che pian piano scendeva e il freddo che arrivava pungente.
Ma c’è una sensazione che ho avuto dal momento della sveglia fino alla fine, cura, mi sono sentita curata sempre ed è stata una bella sensazione. Percepire quell’attenzione nei tuoi confronti, sapere che c’è chi a casa aspetta di sapere se sei arrivata, avere chi è lì ad accogliere ogni dolore, aiuta a sentire meno forte la fatica.
E poi c’è Francesca
È che noi due abbiamo condiviso una quantità di km e di ore, abbiamo condiviso lacrime e risate, la potenza delle albe, affrontato mille paure insieme e riso tantissimo, abbiamo scoperto la nostra strada, il nostro ritmo, e abbiamo sperimentato la possibilità di volare, la leggerezza.
Niente quell’ultimo giro avevo bisogno che lo facessimo insieme io e lei, da sole, senza più nessuno ad accompagnarci, con il buio che arrivava;
avevo bisogno di chiudere quel pezzo di strada con lei, e così è stato, i 5km più densi che io abbia percorso fino ad ora, ritrovarsi a cantare una canzone cretina per riuscire a sopportare la fatica, e ridere fino alle lacrime, e arrivare insieme a tagliare quel traguardo, essere riuscite a farcela.
Qualche giorno dopo la maratona ho scritto poche righe a cercar di fermare quel sentire potente, valgono ancora.
“Chi sono…… E chi lo sa, so chi ero ieri, ma oggi……
Tutto arriva come se fosse lontano, nulla è cambiato eppure è tutto diverso…..
Sono altro, sono altrove, diceva qualcuno…..
Mi sono lasciata vivere per tanto tempo, raccoglievo conchiglie con calma, in questo anno le ho guardate tutte, una per una, in ognuna un pezzetto di me…. Sabato le ho riportate in mare, sono tornate a vivere, sono tornata a vivere….. La potenza della vita, me la sono ripresa tutta, l’ho sentita tutta, la sento tutta…”
Adesso si inizia….
Domenica una persona a cui voglio molto bene mi ha scritto “oggi è il giorno 1”, è così, si riparte da lì, quei 42,195km sono il mio punto di partenza…..adesso tocca di conoscere questa nuova composizione di me, permetterle di rimanere fluida, di cambiare, di cercarsi…..
Ho voglia di andare a respirare come piace a me, di salire e sentire la fatica e poi guardare il mondo da un punto di vista diverso…..chiudere gli occhi…….sentire forte…….scoprirsi a sorridere….sentire quella pace dentro…..
Erica, RTFB 2.0, FINISHER!
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